L’amicizia cristiana tra Martini e Lazzati

Martedì, 19 Maggio, 2020

A causa del coronavirus la realtà eredi della lezione di Giuseppe Lazzati – l’Istituto secolare Cristo re da lui fondato, la Fondazione diocesana milanese a lui intitolata, l’associazione politico-culturale “Città dell’uomo”, l’ultima delle sue creature – hanno dovuto rinunciare all’annuale ricordo dell’illuminato padre costituente ed ex rettore dell’Università cattolica. Era infatti in programma, in questo mese di maggio, un incontro che mettesse a tema l’intenso legame tra Lazzati e il cardinale Martini. Personalità diverse, ma connotate da affinità profonde, semmai arricchite dalle loro differenze.  Martini biblista e pastore, Lazzati laico, universitario e uomo di cultura. E tuttavia accomunati da molti elementi: penso al rilievo della spiritualità ignaziana nella formazione di Lazzati, all’ancoraggio di entrambi alla prospettiva conciliare, a una visione estroversa della Chiesa a servizio della città dell’uomo, alla cura per le distinzioni di ambiti e responsabilità, alla scommessa sulla maturità del laicato. Merita tornarci su sinteticamente.

Decisivi, nel giovane Lazzati, il contributo di padre Fossati, un gesuita educatore del suo tempo, nonché la puntuale partecipazione del Nostro agli annuali Esercizi spirituali dettati appunto dai padri gesuiti nella loro casa del Sacro Cuore di Triuggio. Abbiamo gli appunti, stilati in quegli Esercizi, del ventenne Lazzati, che attestano una precocissima maturità. Già vi si rinvengono i cardini spirituali della sua intera vita e della sua intensa testimonianza cristiana. In entrambi – Martini e Lazzati – si coglie la cura per l’uomo interiore come fondamento di ogni azione. Pur nella diversità dei cespiti culturali e teologici, connessi anche a una certa distanza generazionale. Con Martini approdato a Milano a inizio anni ottanta, Lazzati stabilisce subito una stretta sintonia: non solo dal fronte del rettorato della Cattolica, ma anche partecipando assiduamente con umiltà al Consiglio pastorale diocesano e prestandosi per molte altre iniziative a servizio della Chiesa ambrosiana. Al fondo in entrambi: la ferma e comune adesione all’aggiornamento e alla riforma operati dal Vaticano II, che disegnava il volto di una Chiesa popolo di Dio tutta protesa alla missione, cordialmente aperta sul mondo moderno, impegnata alla sua evangelizzazione e alla sua umanizzazione. Sempre però preservando la distinzione dei compiti e delle responsabilità rispettive. Una Chiesa cioè al riparo da ogni residua nostalgia temporalista, che non pensa se stessa come potere tra i poteri, che non si proponga di ….. “contarsi per contare”. Una Chiesa che semmai si concepisce e opera come lievito, fermento, piccolo resto, minoranza intensa e vivace, lieta e non afflitta dalla sindrome dell’assedio. Secondo il paradigma caro a Lazzati e Martini tracciato dalla Lettera a Diogneto del secondo secolo d.c., ove i cristiani vivono nel mondo ma non del mondo, all’insegna di una doppia, “paradossale cittadinanza”. Non a caso, a conclusione del Sinodo diocesano da lui guidato, Martini propone alla sua Chiesa di ispirarsi alle comunità cristiane primitive. Un quadro teologico-spirituale nel quale, naturaliter, si inscrive la scommessa su un ben inteso protagonismo dei laici cristiani. Sia nella edificazione della Chiesa (una cooperazione pastorale non meramente esecutiva ma anche creativa e corresponsabile), sia e soprattutto sul piano dell’animazione cristiana delle realtà temporali. La politica in senso lato. Compito primario e peculiare del fedele laico, come recita la “Lumen Gentium”. Un campo ove, per eccellenza, si esercita la sua responsabile autonomia. Attraverso il quale (e non nonostante il quale) il laico cristiano persegue il suo cammino di santificazione. E’ significativo che, dopo la morte di Lazzati, Martini abbia voluto intitolare a lui le scuole di formazione politica varate dalla diocesi su larga scala dopo il grande convegno “Farsi prossimo”, additando il professore quale “esemplare testimone e maestro di laicità cristiana”. Ed è ancor più significativo che Martini abbia voluto l’apertura formale del processo di canonizzazione del nostro professore in tempi tanto ravvicinati, entro cinque anni dalla sua morte. Avvalendosi di una norma canonica che si applica raramente e che risponde allo scopo di potere raccogliere le testimonianze viventi di chi lo aveva conosciuto. Ora, specie con Papa Francesco, il processo di canonizzazione ha fatto passi in avanti. Ma non è un mistero che, alla sua apertura, si sia levata qualche isolata obiezione. Erano ancora materia sensibile certe dispute ecclesiali e politiche che avevano visto Lazzati protagonista. Passivo, cioè bersaglio di critiche talvolta malevole di chi non la pensava come lui. Attivo, perché, come si conviene a un laico cristiano adulto, attivo, impegnato dentro la città dell’uomo e i suoi conflitti, Lazzati non si tirava indietro, prendeva posizione, si assumeva intere le sue responsabilità. Sul terreno ove, per definizione, si può avere opinioni diverse anche tra buoni cristiani. Del resto, questa è la santità in genere e quella laicale in ispecie: essa si gioca e si compie dentro e non fuori delle umane vicende. Quando il cardinale Piovanelli aprì la causa per La Pira lo spiegò con chiarezza: la santità non comporta la “santificazione” di tutte e ciascuna delle scelte contingenti operate dal soggetto (certificandone la perfezione), ma la qualità evangelica della dedizione che le ha ispirate lungo la vita (la soggettiva perfezione nella carità). Ciò che vale per La Pira vale a fortiori per Lazzati, cristiano sobrio, solido, lombardo. Meno incline agli slanci e all’entusiasmo di una fede esibita con la fanciullesca innocenza del fraterno amico fiorentino. Un cristiano, Lazzati, la cui eccellenza riluceva dentro la normalità.

Si spiega che Martini, a sua volta, si sia mostrato risoluto nell’aprire precocemente la causa di canonizzazione nonostante qualche isolata obiezione. Non solo per la ragione pratica già accennata: raccogliere le testimonianze ancora viventi. Ma anche – è una mia ipotesi – per altri due motivi: l’affinità caratteriale, la sobrietà, la severità ascetica di entrambi; ma soprattutto il suo eloquente motto episcopale “pro veritate adversa diligere” tratto da San Gregorio Magno. Ovvero: scegliere e, in certo modo, prediligere le avversità, non indietreggiare di fronte alla prova e agli eventuali contrasti. Da concepire semmai come ulteriore certificazione di una santità non oleografica, non da immaginette, non estranea ai conflitti e ai dammi dei quali è intessuta la vita. Per chi volesse approfondire questo motto episcopale – a ben vedere assai congeniale anche alla sorte di Martini, un pastore amato da molti, ma non da tutti – merita visitare (lo si può fare anche online, link….) la bella mostra a lui dedicata dalla Fondazione cardinal Martini e dall’Istituto Leone XIII, che significativamente ha scelto come titolo proprio quel motto.

 

 

Clicca qui per visitare la mostra “Adversa diligere: un uomo per la città”