Il partito cui pensa Zingaretti, i dubbi e le esigenze di una politica democratica

Martedì, 14 Gennaio, 2020

A quasi un anno dalla sua elezione a segretario del Partito Democratico prende forma in queste ore l’idea di partito di Nicola Zingaretti. La proposta, più simile ad un percorso che ad una vera e propria struttura organizzativa, arriva dopo mesi non semplici, segnati dalla crisi della coalizione che sommava i voti di Movimento 5 Stelle e Lega a sostegno del primo governo Conte e dalla nascita di un secondo esecutivo guidato dallo stesso Presidente del Consiglio ma con il Partito Democratico e Liberi e Uguali a comporre la maggioranza parlamentare. Una maggioranza che si è ulteriormente articolata con la nascita di Italia Viva a seguito della decisione di Matteo Renzi e di una parte del gruppo dirigente del Partito Democratico di lasciare il soggetto politico che pure avevano guidato per un quinquennio come maggiore forza di governo del paese.

Attraverso questo percorso politico accidentato la segreteria Zingaretti è apparsa segnata da un atteggiamento prudente e a tratti circospetto, che ha segnato, almeno negli atteggiamenti, una netta discontinuità rispetto ad una stagione nella quale il segretario del Partito Democratico era contraddistinto da un attivismo politico molto marcato, quasi a saturare ogni spazio comunicativo disponibile per la maggiore forza politica italiana di centro sinistra. La linea adottata dal segretario, sia nella composizione degli organi dirigenti che nel gestire passaggi delicati come la formazione del secondo esecutivo Conte o le elezioni regionali, è stata segnata dalla volontà di fare della propria funzione di segretario il punto di caduta di un equilibrio interno dal Partito fra le diverse componenti e certamente l’uscita di Renzi ha aperto la strada alla riorganizzazione o rifondazione di una forza progressista, nella misura in cui la nascita di Italia Viva ha rotto il delicato ma sofferente equilibrio che fino alla scorsa estate ha caratterizzato il Partito Democratico.

Lo sfondo dell’iniziativa di Zingaretti va però ulteriormente articolato, perché comprende anche un quadro sociale e culturale che negli ultimi mesi ha visto emergere realtà ed esperienze nuove, a partire dal movimento delle “sardine” con cui l’annunciato nuovo partito intende costruire un rapporto politico. A questo si aggiungono, nelle intenzioni del segretario, i movimenti progressisti, democratici e ambientalisti, nella convinzione che questa sia la via per dare al Paese quell’alternativa alla destra egemonizzata ad oggi dalla Lega salviniana.

Al di là dell’annuncio, fatto attraverso una conversazione con Massimo Giannini, le parole di Zingaretti non precisano i dettagli di questa iniziativa politica che, nelle intenzioni, intende segnare un punto di svolta non solo per il centro sinistra ma in generale per l’intero sistema politico italiano. Vi sono però una serie di elementi che emergono e di questioni che si pongono su cui forse è opportuno riflettere per provare a capire quali sono le prospettive che si aprono rispetto a questa iniziativa. Sul piano dell’iniziativa politica emerge una prima perplessità dettata dalle modalità e dalle tempistiche che la scelta del segretario del Partito Democratico ha compiuto. Affermare che si intende vincere le elezioni in Emilia-Romagna sotto le bandiere del Partito Democratico per poi abbandonare, subito dopo, quella esperienza e quel progetto politico per dar vita ad una forza i cui contorni culturali e progettuali sono ancora del tutto indefiniti appare una scelta singolare che potrebbe creare incertezza fra i militanti e gli elettori alla vigilia di un’elezione regionale così delicata e decisiva. A meno che la prospettata svolta non sia solo un cambio di denominazione a cui fa seguito il tentativo di includere quei pezzi della “società civile” che esprimono un’insofferenza verso i toni e le forme della politica di Lega e Fratelli d’Italia, a cominciare dal movimento delle “Sardine”. Se però è questo l’obiettivo ci si chiede se sia sufficiente un cambio di nome e di “ragione sociale” del Partito e se abbia davvero senso, sul terreno politico, darsi come priorità quella di coagulare forze ed energie nella costruzione di un argine sociale e culturale: un atto certamente meritorio di fronte alla forza di una violenza intellettuale dilagante ma strutturalmente incapace di farsi proposta di governo.

È certamente essenziale, come sostiene Zingaretti, costruire un dialogo e un rapporto con le tante iniziative che nel Paese esprimono una preoccupazione per l’oggi e per il domani, che alimentano o cercano di rafforzare una sensibilità sociale, ambientale, culturale che oggi corre rischi reali. E tuttavia un partito che intenda sviluppare un rapporto del genere deve semplicemente porsi il problema di come includere quelle realtà fra le sue fila? Non si tratta invece di dare seguito al dovere di rappresentanza che dovrebbe guidare una forza come il Partito Democratico dando a quelle istanze una risposta politica, ossia misurandosi con la dimensione del possibile nella quale si gioca quel richiamo all’etica della responsabilità che dovrebbe essere la stella polare del politico? Questo soprattutto perché termini come “società civile”, “ambientalismo”, “progressismo”, “democrazia” sono certamente cruciali ma nella misura in cui si è capaci di cogliere il significato che essi hanno nell’oggi. Che cos’è oggi la società civile? Volerla includere dentro un partito o una forza politica in nome del pluralismo è davvero possibile? Non c’è il rischio di volersi arrogare una forma di inclusione che diviene totalizzante e omologante rispetto a qualcosa che invece, strutturalmente, resta sempre segnato da un pluralismo, da una diversità e anche da una frammentarietà difficilmente componibili? E ancora: che cosa significa oggi essere “progressista”? Significa rivendicare diritti e dignità del lavoro? Eppure, questi temi sono presenti anche nelle proposte di forze definite oggi “populiste” e “sovraniste” che imputano il degrado dei diritti ad una globalizzazione che era stata pensata e delineata, nelle sue grandi linee, proprio dai progressisti dei decenni a cavallo fra il XX e il XXI secolo. E cos’è la democrazia? Affermare che le forze democratiche sono quelle chiamata a raccogliersi sotto le bandiere del partito che succederà al P.D. non comporta l’implicita affermazione che chi non accetta di militare in quella forza politica non si riconosce nel metodo e nel principio democratico? Ed è davvero così? Davvero fra i conservatori non vi è alcun senso di democrazia?

Sono domande retoriche a cui si può facilmente rispondere che le parole di Zingaretti vanno lette nel quadro delle poche righe di una conversazione giornalistica e che dunque rispondo alla necessaria semplificazione del processo comunicativo. Eppure, proprio qui sta il punto più controverso: può un passaggio politico di questa portata essere ridotto ad una conversazione con un giornalista, seppur assai autorevole ed esperto, e affidato ad un linguaggio comunicativo così semplificato da sfumare ogni carattere distintivo fino a renderne diafano il contenuto?

L’assuefazione alla necessità di semplificare la realtà, alimentata da un uso privo di coscienza dei mezzi di comunicazione digitali, rappresenta una cifra della cultura del nostro tempo e anche della politica e si fa strumento di costruzione di una percezione della realtà che programmaticamente rifugge da quell’intreccio di tensioni, relazioni e conflitti che invece fanno la verità delle cose e con cui alla fine il confronto è inevitabile. Forse servirebbe ripartire da qui, dalla consapevolezza che la vera alternativa ad un quadro politico oramai incapace di governare le dinamiche di una democrazia complessa, sia sul piano istituzionale che su quello sociale, dovrebbe ripartire da una chiamata alla responsabilità non solo delle classi dirigenti ma dei cittadini. Le scelte sul futuro del nostro paese, sul contributo che dobbiamo dare alla costruzione di una Unione Europea che esercita la sovranità in modo autorevole, sulla cura di diritti e doveri, su un mutamento epocale di stili di vita e forme socio-economiche verso la piena sostenibilità: tutte queste sfide che segnano il nostro tempo richiedono che siano prima di tutto i cittadini a sentire il dovere di conoscere, discutere e vagliare proposte, idee e iniziative, andando al di là dei caratteri di un tweet o di commenti affidati a strumenti come Facebook e Instagram.

Prima ancora che passare attraverso la riorganizzazione della struttura di un Partito, prima ancora che tornare a scegliere fra l’alternativa fra partito “leggero” e partito “pesante”, prima ancora che discutere della necessità di abbandonare un nome che non funziona più come marchio efficace nel “mercato elettorale” italiano, occorrerebbe capire se siamo ancora in grado di esprimere una sensibilità politica e cioè di ricordare ai cittadini che il governo delle cose, in un regime democratico, non è la scelta fra il prodotto migliore offerto in campagna elettorale. La politica democratica è prima di tutto coscienza diffusa della responsabilità civile che le scelte di ciascuno hanno, come singolo e come parte di realtà sociali e comunitarie. La politica democratica è prima di tutto consapevolezza che le divisioni e il conflitto hanno un valore positivo dentro un processo dialettico che porta a maturare una comprensione delle cose e una decisione che guarda alla verità della realtà, al suo intreccio di attese, sofferenze e rivendicazioni, e la proietta verso un equilibrio nuovo.