Il divorzio della Gran Bretagna

La procedura per il divorzio della Gran Bretagna dall’Unione Europea inizierà il prossimo 29 marzo con una comunicazione ufficiale del governo inglese inviata a Bruxelles nove mesi dopo il referendum su Brexit dello scorso giugno. Per concludere una trattativa che sin da ora si annuncia decisamente complessa, secondo le norme previste dall’articolo cinquanta del Trattato di Lisbona ci sono ventiquattro mesi. Un mancato accordo entro questo termine prevede due opzioni: una proroga del dialogo se autorizzata in maniera unanime da tutti i partner Ue oppure la decadenza automatica di ogni legame tra le parti. Con ricadute potenzialmente molto negative per i sudditi della regina. Le premesse per l’esecutivo conservatore di Theresa May non sono affatto buone. Colpa della rigidità mostrata sino ad ora dagli oltranzisti della “hard Brexit” che pretendono di dettare le condizioni del negoziato. Rifiutando in via pregiudiziale di garantire tutele legali per gli oltre tre milioni di cittadini di provenienza continentale che vivono e lavorano sull’isola (seicentomila gli italiani), nonostante i ripetuti inviti arrivati da Parigi e da Berlino di garantire la libera circolazione delle persone durante l’intera durata del confronto tra le parti.

A Londra non sembrano avere ancora ben compreso che la Ue non è affatto disponibile a premiare la scelta britannica. Nonostante Michel Barnier, alla guida del team incaricato di negoziare con i britannici, abbia ribadito in più di una circostanza che sul tavolo ci saranno subito un paio di punti: una legge che protegga gli europei ora nel Regno Unito (approvata dai Lord ma respinta ai Comuni) e il rimborso di sessanta miliardi di euro per pendenze di bilancio. Solo in seguito, ha aggiunto Barnier, si potrà parlare di intese di natura commerciale, magari prevedendo un limitato accesso al mercato unico. Un premio al quale May guarda con grande interesse perché un fallimento su questo punto la costringerebbe a dover sottostare alle regole del Wto che prevedono pesanti dazi doganali poco graditi alle aziende inglesi che operano in un ambito globale.  Inoltre, come rilevava pochi giorni fa un editoriale del quotidiano londinese Guardian, per la sopravvivenza della stessa Ue è fondamentale che la Gran Bretagna esca dalla trattiva in condizioni peggiori. All’origine di questo punto politico decisivo per Bruxelles non c’è una logica vendicativa, ma l’urgenza di evitare il contagio. Qualunque accordo, se raggiunto, dovrà pertanto essere svantaggioso per chi abbandona per la prima volta nella storia l’Unione tanto da scoraggiare gli altri ventisette stati a seguire la strada imboccata da Londra, per quanto infelice possa apparire in questo momento il matrimonio.

La sterlina è intanto in caduta libera sui mercati dei cambi a causa dell’assenza di una strategia chiara da parte dell’esecutivo britannico. La valuta ha perso il venti per cento del valore rispetto al dollaro (toccando il livello più basso da oltre un secolo) e all’euro, rendendo salato il costo delle importazioni di materie prime. Contemporaneamente le stime sul Pil del 2017 e 2018 sono state ridotte al ribasso dalla Bank of England, mentre un rapporto ufficiale del Tesoro diffuso a inizio febbraio stima in settanta miliardi di sterline il costo di Brexit cui si deve sommare la perdita di migliaia di posti di lavoro a causa della decisione di molte aziende del comparto finanziario e assicurativo di trasferirsi al più presto in area comunitaria per non perdere il “passaporto  europeo” che garantisce loro innumerevoli vantaggi competitivi. L’opacità di May in materia di Brexit non piace agli imprenditori perché, commenta il Financial Times, “l’ambiguità produce sempre un’incertezza nel breve periodo e minacce di lungo periodo a investimenti, competizione e produttività”. Senza contare che a divorzio avvenuto dovranno essere riviste circa centocinquantamila leggi approvate a Westminster con tempi burocratici per ora non definibili.

Da Edimburgo, intanto, la first minister scozzese continua a chiedere a gran voce un secondo referendum sull’indipendenza da Londra e ha stretto alleanze con gli omologhi di Ulster e Galles, assai poco disponibili a rinunciare ai vantaggi che derivano loro dall’Europa. Il rischio concreto è quello di una frantumazione istituzionale non arrestabile, preludio alla scomparsa del Regno Unito dopo oltre tre secoli. Quello che inizia il 29 marzo, insomma, è per May un viaggio senza mappe verso l’ignoto. Nulla, sotto il profilo giuridico, impedisce all’esecutivo un ripensamento. Che però la premier tory rifiuta perché certa di trarre vantaggi dall’uscita. Probabile che nei prossimi mesi debba ricredersi.   

Di Roberto Bertinetti