Idee guida di Maurizio Gentilini

PACE. IL REALISMO DELL’UTOPIA

Se analizziamo, anche superficialmente, le condizioni della guerra e della pace nel mondo attuale, l’assunto gramsciano secondo il quale l’ “ottimismo della volontà” è l’unico elemento opponibile al “pessimismo ragione” dimostra tutto il proprio potenziale etico e politico.

La condizione di “terza guerra mondiale” (seppur “combattuta a pezzetti”) evocata da papa Francesco, seppur non ratificata da nessuna cancelleria, trattato o consiglio di sicurezza, non è mai stata smentita da nessuno.

Di fronte a tale condizione, la pace sembra essere una prospettiva sempre più legata all’utopia: un termine coniato da Thomas More esattamente 500 anni fa, nel 1516. Utopia: il “non luogo” che, nel pensiero del grande umanista inglese, annoverava la pace tra i suoi caratteri fondanti, e vedeva nella guerra qualcosa di assolutamente contrario al senso di umanità. Utopia: un simbolo di realismo opposto alle tesi della guerra come strumento di conservazione della pace. Perché di fronte alla capacità dell’uomo di distruggersi con la guerra, l’unico realismo possibile non può essere che la pace.

 

GUERRA E PACE NEL “SECOLO BREVE”

L’edizione italiana dell’enciclopedia online Wikipedia, opera libera e collaborativa assurta a modello di classificazione e divulgazione del sapere nell’epoca di internet, alla voce Secolo breve, individua nella data del 28 giugno 1992 – lo stesso giorno dell’assassino dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando, che settantotto anni prima aveva dato avvio alla Grande Guerra – l’atto finale di questo periodo storico. Data del discorso tenuto a Sarajevo dal presidente francese Francois Mitterand, che nella capitale bosniaca martoriata dalla guerra balcanica, rivolgendosi ai grandi di tutto il mondo, invoco una nuova e duratura pace.

Il XX secolo, caratterizzato dalle più spaventose guerre e dai più cruenti massacri che l’umanità abbia mai conosciuto, si conclude - secondo l'ignoto redattore dell'opera enciclopedica virtuale - con un richiamo alla pace, in un martoriato lembo di terra alla periferia di un’Europa in cerca di identità, oramai anch’essa periferia di un mondo che le logiche della globalizzazione hanno profondamente e velocemente ridefinito nella sua fisionomia complessiva.

 

GUERRA E PACE AL CREPUSCOLO DEL MILLENNIO

Dopo le grandi mobilitazioni dei primi anni settanta, polarizzate sulla protesta contro L’intervento militare americano in Vietnam, il periodo successivo fu caratterizzato da una nuova stagione di impegno pacifista: negli USA montarono i movimenti per il cosiddetto “congelamento degli armamenti”, nei paesi europei nacquero campagne promosse dalle varie culture politiche e culminate in una serie di grandi manifestazioni e iniziative politiche, il fenomeno dei “dissidenti” influenzò in maniera significativa alcune scelte del blocco sovietico.  

Caratteristiche di questa fase furono la dimensione di massa raggiunta dal pacifismo, sconosciuta in passato, e il coordinamento internazionale tra le varie organizzazioni.

Si stava percependo la fine degli scenari che avevano accompagnato il crepuscolo della Guerra fredda, dall’epoca dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979), allo spiegamento in Europa dei missili nucleari strategici da parte dei due grandi blocchi.

Una presenza cosi importante e coordinata del movimento pacifista arrivo ad avere un impatto sulle scelte di molti governi nazionali, che aprirono la strada alle riduzioni “asimmetriche” delle armi atomiche e convenzionali.

Nel 1986, l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina, e il conseguente pericolo di contaminazione nucleare di gran parte dell’Europa e del Medio Oriente provocarono un profondo ripensamento della coscienza ambientalista in tutto il mondo, compreso un nuovo paradigma nella riflessione sulla percezione della pace. Nella prospettiva storica Chernobyl si collocava al pari della vicenda di Hiroshima, ma con un elemento problematico in più, poiché estendeva a un settore della vita sociale, e alla stessa vita quotidiana di ogni uomo, la minaccia che fino a quel momento sembrava profilarsi solo come fatto militare, e più precisamente come eventualità di una guerra atomica.

L’umanità prendeva pienamente coscienza del pericolo incombente, compreso quello estremo della sua autodistruzione, e della propria incapacità di evitarlo. Era finito il tempo dell’equilibrio tra i blocchi che aveva permesso di considerare il rischio della guerra atomica più teorico che reale. Dopo l’incidente della centrale sovietica questa speranza non aveva più senso.

Si cominciava a percepire come una minaccia il progresso della potenza tecnologica dell’uomo, di per se inarrestabile. Tale sviluppo, giunto ormai a un punto tale da mettere in pericolo gli equilibri fondamentali della sfera biologica e della sfera fisica, avrebbe dovuto essere sottoposto in quanto tale, e non solo per questo o quell’aspetto, e non solo a livello di singole nazioni, a un controllo politico efficace, ovviamente sul piano mondiale.

L’assioma secondo cui non può più esserci salvezza per l’umanità senza un modo nuovo di pensare e di agire politicamente e senza un governo mondiale (fino a quel momento relegato alla riflessione di circoli ristretti e singole coscienze), con l’incidente di Chernobyl acquistava in brevissimo una dimensione planetaria. Era ormai matura la coscienza della crescente interdipendenza dell’azione umana a livello planetario, dell’unita di destino del genere umano e della necessità di decisioni politiche di portata mondiale.

In questi anni si percepiva per il concetto di pacifismo anche la fine di un’epoca, che lo aveva visto stretto nella morsa dei blocchi e concentrato sulle questioni del disarmo.

I nuovi scenari internazionali non impedivano l’esplodere di nuove guerre; allo stesso modo i movimenti per la pace non si sottraevano a dare vita a nuove forme di mobilitazione.

L’inizio degli anni novanta (nonché fine del “Secolo breve”) coincide con lo scoppio della guerra del Golfo: un conflitto destinato a ridefinire gran parte dei modelli concettuali e interpretativi entro i quali erano state inscritte le guerre del XX secolo, proiettando la sua lettura in una dimensione politica e culturale inedita.

Nel 1991 scoppio la guerra tra le repubbliche dichiaratesi indipendenti e tra le etnie serbe, croate e (in seguito) musulmane di Bosnia, successiva allo sfaldamento della Repubblica socialista federale di Jugoslavia.

Nella regione balcanica, da sempre considerata parte integrante dell’identità europea, divampava un conflitto capace di mettere in crisi tutte le categorie interpretative e la capacita di intervento del pensiero politico e delle forze di governo occidentali.

Negli stessi anni la comunità internazionale, a vari livelli, promuoveva interventi, anche armati, allo scopo di soccorrere e pacificare popolazioni in stato di guerra, come quelli in Somalia (1992), in Bosnia Erzegovina (1993), in Albania (1997), in Kosovo (1999).

Parallelamente si assiste all’affacciarsi di nuove modalità, nuovi soggetti e nuove soluzioni nelle trattative internazionali per ricondurre a condizioni di pace nazioni e territori divisi e oppressi da guerre civili: e il caso del Mozambico, la cui situazione di guerra interna venne risolta e regolata dal trattato di Roma del 1992, dopo una difficile mediazione tra le parti in conflitto condotta dal Governo italiano e dalla Comunità di Sant’Egidio.

Di segno opposto le vicende che caratterizzarono la situazione politica – eredità della stagione del colonialismo – di alcune nazioni africane della regione dei Grandi Laghi, con i tremendi massacri etnici in Burundi e Rwanda tra il 1993 e il 1994 e l’esplosione di analoghi conflitti in Zaire e Congo negli anni successivi.

Simili situazioni e operazioni, tuttavia, unitamente al dispiegarsi dei processi di interdipendenza economica e politica a livello planetario, ponevano al movimento pacifista l’obiettivo della democratizzazione dell’ordinamento internazionale e degli strumenti per un governo mondiale in grado di prevenire conflitti armati. In questo senso le richieste di buona parte delle correnti pacifiste si orientarono verso progetti di riforma dell’ONU (con proposte di allargamento del Consiglio di sicurezza e di abolizione del diritto di veto delle grandi potenze) e rivendicazioni di maggiori poteri a soggetti come la Corte internazionale di giustizia (CIG) de l’Aja.

Per le stesse ragioni il pacifismo, nella sua più larga accezione di metodo non violento dell’azione politica, andava progressivamente confluendo, divenendone componente essenziale, nel vasto quanto variegato movimento d’opposizione transnazionale alla globalizzazione economica e liberista sviluppatosi negli ultimi decenni del Novecento.

Sempre in quel primo scorcio degli anni novanta, in Italia, scomparivano alcune grandi personalità – curiosamente tutti religiosi ed esponenti di spicco della cultura cristiano-cattolica – che della pace avevano fatto il manifesto della propria testimonianza di vita, di fede e di pensiero, e che erano considerate voci profetiche da gran parte del movimento pacifista: Tonino Bello (1935-1993), vescovo e presidente del movimento cattolico internazionale per la pace Pax Christi, che aveva definito pace, giustizia e salvaguardia del creato come “Trinità terrestre” e che, a Natale 1992, aveva sfidato i cecchini di Sarajevo promuovendo la marcia della pace che ruppe l’assedio alla capitale bosniaca; Ernesto Balducci (1922-1992), la cui riflessione intellettuale si era sempre rivolta verso i grandi “temi planetari” dei diritti umani, del rispetto dell’ambiente, della cooperazione, della solidarietà e della pace, in una frontiera culturale tra credenti e non credenti; David Maria Turoldo (1916-1992), “coscienza inquieta” della Chiesa italiana e poeta-testimone del dolore di Dio per un’umanità incapace di rinunciare alla guerra; Giuseppe Dossetti (1913-1996), monaco che mai dimentico il suo passato di uomo politico e padre costituente, estensore dell’articolo 11 della Carta costituzionale italiana che sancisce il ripudio della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

A loro va necessariamente aggiunto Alexander Langer, scomparso nel 1995, politico pacifista e ambientalista, teorico e promotore della convivenza tra i popoli e di un “futuro ecologicamente compatibile”.

Si era già entrati nel nuovo millennio, accompagnato da un’ulteriore forte cesura nella storia del concetto di guerra, originata dall’attentato alle Torri gemelle di New York, dal suo impatto sugli equilibri politici e sui mercati mondiali e dai nuovi scenari delineati dalla lotta al terrorismo internazionale, culminata con l’intervento militare americano in Iraq.

LA PACE NEI NUOVI SCENARI INTERNAZIONALI

Il 18 agosto 2014 la – ormai famosa - dichiarazione di Papa Francesco: "Siamo entrati nella terza guerra mondiale … solo che si combatte a pezzetti, a capitoli".

Il 29 settembre successivo, il Segretario di Stato vaticano card. Piero Parolin, intervenendo all’assemblea delle Nazioni Unite, ha descritto i lineamenti “totalmente nuovi” degli scenari di guerra che insanguinano il mondo.

Ha denunciato la “irresponsabile apatia” fin qui dimostrata dall’ONU, le voci contraddittorie e perfino il silenzio della comunità internazionale riguardo ai conflitti esplosi nel mondo negli ultimi anni, come quelli in Siria, in Medio Oriente e in Ucraina

Ha parlato di come queste nuove sfide dovrebbero spingere le autorità internazionali a promuovere una risposta unificata, muovendo da due ambiti fondamentali: l’identificazione dei fattori culturali e politici che generano le crisi internazionali e l’adeguamento degli istituti del diritto internazionale per prevenire la guerra.

A proposito di questi due ambiti, è da rilevare come uno dei tratti politici e culturali caratterizzanti il recente fenomeno terrorista consista nella negazione del concetto e dell’esistenza dello stato e, di fatto, dell’intero ordine internazionale.

Il terrorismo internazionale, così come si è imposto negli ultimi anni nel panorama mondiale, mira a controllare direttamente intere aree comprese nei territori di più paesi; a imporre le proprie leggi, distinte e spesso opposte rispetto a quelle degli stati sovrani; a rifiutare ogni sistema giuridico esistente, cercando di imporre il dominio sulle coscienze e il controllo sui popoli.

La natura globale e transnazionale di questo fenomeno genera una situazione di fatto non prevista dalla configurazione giuridica della Carta delle Nazioni Unite.

La comunità internazionale deve assumersi nuove e inedite responsabilità, riflettendo sui mezzi migliori per fermare ogni aggressione ed evitare il perpetrarsi di ingiustizie.

Nelle sue nuove forme la guerra dimostra la propria capacità paralizzante e “destituente”, senza che le istituzioni preposte al governo sovranazionale e alla promozione della pace propongano scenari e percorsi realistici ed efficaci.

Rompere questa impasse è una condizione necessaria e possibile soltanto affermando in modo del tutto materiale e non “disincarnato” principi di organizzazione della vita e rapporti sociali radicalmente inconciliabili con le ragioni della guerra.

E una delle necessità è quella di esplicitare il diritto alla pace, affinché venga assunto negli ordinamenti giuridici e nella cultura civile.

DIRITTO ALLA PACE

I cosiddetti “diritti umani” - appartenenti allo spettro dei diritti individuali e sociali – possono avere una loro sintesi universale in quello definito come “diritto alla pace”.

Un diritto, tuttavia, decisamente misconosciuto. Nonostante una serie di dichiarazioni solenni e di impegni, nel diritto internazionale non esiste uno strumento giuridicamente vincolante che sancisca il diritto alla pace.

Nel suo Preambolo, lo Statuto dell’ONU (1945) afferma solennemente l’impegno di "Noi popoli delle Nazioni Unite ... a liberare l'umanità dal flagello della guerra".

La Dichiarazione di principio sulla tolleranza, adottata dalla Conferenza generale dell’UNESCO nel 1995 dichiara che gli esseri umani "... hanno il diritto a vivere in pace".

La Dichiarazione sul Diritto dei Popoli alla Pace è stata approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 39/11 del 1984 e "Proclama solennemente che i popoli del nostro pianeta hanno un sacro diritto alla pace".

La pace proclamata dall’Articolo 28 della Dichiarazione universale dei diritti umani (1948) è – per usare una nozione cara a Norberto Bobbio – “pace positiva”, intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione all’insegna del “se vuoi la pace, prepara la pace”. E’ il contrario della pace negativa, cioè della mera assenza di guerre guerreggiate, come parentesi tra una guerra e la successiva, a difesa di interessi nazionali e particolari.

La Dichiarazione universale è la fonte primaria di un nuovo diritto internazionale: un diritto che pone il rispetto della dignità di tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti eguali e inalienabili, a fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo, cioè dell’ordine mondiale e di qualsiasi altro ordinamento.

L’Articolo 11 della Costituzione Italiana, è in perfetta sintonia col diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite e sulla Dichiarazione universale: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

 

AGGIORNAMENTO LUGLIO 2016

Dichiarazione ONU “sul diritto alla pace”

Nel mese di luglio il Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra ha adottato una risoluzione con cui si approva il testo della Dichiarazione ONU “sul diritto alla pace” e si dispone che venga trasmesso all’Assemblea Generale per la definitiva approvazione. Un testo frutto di un lungo e complesso percorso, durato sei anni, che ha visto la partecipazione di molte istituzioni (quelle italiane capeggiate dal Centro di Ateneo per i Diritti Umani dell’Università di Padova e dalla Cattedra Unesco Diritti Umani, Democrazia e Pace presso la stessa Università)

Il testo del dispositivo della Dichiarazione:

Articolo 1

Ognuno ha il diritto di godere la pace in modo che tutti i diritti umani sono promossi e protetti e lo sviluppo è pienamente realizzato.

Articolo 2

Gli stati devono rispettare, implementare e promuovere l’eguaglianza e la non discriminazione, la giustizia e lo stato di diritto e garantire la libertà dalla paura e dal bisogno quali misure per costruire la pace dentro e fra le società.

Articolo 3

Gli Stati, le Nazioni Unite e le agenzie specializzate, in particolare l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura devono assumere appropriate misure sostenibili per implementare la presente Dichiarazione. Le organizzazioni internazionali, regionali, nazionali e locali e la società civile sono incoraggiate a prestare supporto e assistenza nell’implementazione della presente Dichiarazione.

Articolo 4

Saranno promosse le istituzioni internazionali e nazionali di educazione per la pace al fine di rafforzare fra tutti gli esseri umani lo spirito di tolleranza, dialogo, cooperazione e solidarietà. Per questo scopo, l’Università per la Pace deve contribuire al grande compito universale di educare per la pace impegnandosi nell’insegnamento, nella ricerca, nella formazione postuniversitaria e nella disseminazione della conoscenza.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E RISORSE WEB

 

In costruzione