I rischi di un’illusione. Note a margine del piano Colao

Giovedì, 11 Giugno, 2020

Il complesso e articolato dossier di schede di lavoro redatto dal comitato presieduto da Vittorio Colao restituisce un insieme di misure e interventi distribuiti in sei macroaree e finalizzati non solo a far riprendere la dinamica economica e sociale del paese. Il lessico utilizzato nelle 121 pagine che compongono il documento, infatti, permette di cogliere come quanto è stato elaborato non risponde solo alla categoria della ripresa, tanto evocata in queste settimane, ma si modella forse in modo più adeguato su quella della “efficienza”. Il paese che emerge dalle analisi che vengono fatte sul piano dell’economia sostenibile piuttosto che su quello della digitalizzazione è segnato da limiti, paletti, procedure complesse di cui si propone un radicale e drastico superamento andando in direzione di una semplificazione che passa sia per la fissazione di limiti specifici al ruolo dello Stato, e più in generale della politica e delle istituzioni sul terreno economico-sociale, sia per il riordino di settori strategici, come ad esempio quello dell’istruzione e della ricerca, in una chiave organica che li renda funzionali a concorre alla crescita economica del “sistema Italia”.

Tanto il piano Colao quanto le critiche che attorno ad esso sono nate, rispecchiano uno dei nodi problematici più profondi di queste settimane che seguono alla fase sanitaria della crisi determinata dalla pandemia di Covid-19. Le riserve sull’impostazione “ultraliberista” delle misure proposte, così come la tendenza a pensare il sistema paese in termini di crescita economica e dunque di messa in discussione di vincoli e procedure, rappresentano i due poli di una discussione attorno al rapporto fra politica ed economia che a partire dalla grande crisi del 2008 si è allargata dal piano strettamente accademico a quello dell’opinione pubblica. Un passaggio, questo, certo significativo sul piano di una maturazione comune attorno a questioni così rilevanti per la vita di tutti, eppure non privo di una rigidità di posizionamenti resa ancor più marcata dalla caratterizzazione politica e partitica della discussione. Si pensi, ad esempio, al ritorno, anche in queste ore, dell’idea di uno Stato “leggero” incarnata dallo slogan “meno tasse”, che tuttavia sembra stridere non tanto con la visione opposta di un ruolo pervasivo della politica nella del paese ma piuttosto con l’esperienza, non ancora conclusa, di una domanda di ruolo “pesante” dello Stato, capace di essere largamente e diffusamente presente dentro le dinamiche del paese a tutela delle fragilità individuali e collettive.

Rispetto alla discussione che in modo spesso superficiale prende forma attorno al “piano Colao” e ai suoi contenuti, e più in generale rispetto alle diverse “ricette” proposte per portare il paese fuori da una situazione economica drammatica, a mancare sembra essere proprio il rapporto con il dato esperienziale. O meglio, l’impressione che emerge è quella di una classe dirigente, non solo politica ma economica, industriale, culturale, che pensa a quel che abbiamo davanti in termini di semplice “ripresa”, ossia di riattivazione di processi e dinamiche che l’8 marzo scorso sarebbero stati sospesi, quasi congelati, e che ora occorre solo riattivare nel modo più efficiente ed efficace. È l’idea che questi tre mesi rappresentino una semplice, seppur tragica, sospensione dell’ordinarietà a rappresentare il vero limite delle strategie che si cerca di definire in queste settimane, in Italia e non solo.

La portata globale della pandemia, che al suo passaggio ha riproposto sostanzialmente in tutti i paesi lo stesso schema di sospensione delle attività economiche, delle relazioni sociali, dei movimenti di persone e beni, ha introdotto una variabile per certi aspetti non prevista: la possibilità che l’assunto fondamentale del sistema, ossia la sua crescita in termini quantitativi, possa essere sospesa e azzerata per un periodo imprevedibile (le due tre settimane inizialmente previste dalle autorità sono divenute tre mesi). Una condizione, questa, che impone non solo di ripensare il modello di sviluppo con cui procede il sistema economico globale, ma chiede piuttosto di mettere in discussione il sistema stesso nei suoi fondamenti.

Non si tratta di avallare opzioni pregiudizialmente anticapitaliste, le quali per altro si muovono quasi sempre lungo la stessa linea concettuale, tenendo cioè ferma l’idea di sviluppo come crescita quantitativa di una ricchezza che si chiede di redistribuire in termini diversi, ma di cui non si mette in discussione l’origine e la natura. Quello che occorrerebbe fare è piuttosto una presa d’atto di quanto emerge dalla realtà delle cose, che queste settimane di dolore e sofferenza di corpi e di animi hanno portato su un crinale capace di mettere a nudo limiti, contraddizioni e criticità di un sistema che non è l’unico possibile. E del resto, proprio l’esperienza di una crisi così radicale ha mostrato alcuni elementi utili a pensare una forma diversa anche delle relazioni sociali ed economiche. Gli esiti della pandemia, ad esempio, non solo hanno accentuato tragicamente il divario fra i ricchi e i poveri, ma hanno anche reso più evidente la problematicità di un approccio “globalizzante”, cioè omologante, che pensa il sistema economico nei termini di una riproduzione “in serie” di relazioni produttive o commerciali da estendere a tutti i contesti e a tutti i luoghi. Un orientamento, questo, diverso da un approccio che potremmo chiamare “planetario” e che invece assume le diversità come il punto di forza di una rete di relazioni, anche economiche, capace di essere molto più articolata e dunque anche molto più equa – ossia socialmente ed economicamente vantaggiosa per tutti – nel distribuire a ciascuno ciò che gli è dovuto.

Le questioni che emergono da un confronto serrato con la realtà consentono di non cadere nel rischio di pensare solo in termini di “ripresa” e dunque di uscire dai vincoli culturali di un ritorno ad un assetto sociale ed economico compromesso nei suoi stessi assi portanti e rispetto al quale occorre un di più di politica. Questo perché pensare processi capaci di far lievitare quanto di costruttivo e vitale è emerso da questi mesi di pandemia richiede un atto di coraggio intellettuale da parte, prima di tutto, delle classi dirigenti: quello di invitare i propri concittadini ad abbandonare l’illussoria sicurezza della riproposizione di uno ieri che non c’è più per avventurarsi, invece, in un mondo che oramai non è più il futuro ma è il presente in cui siamo. La sfida, in questo senso, è profondamente politica e investe soprattutto la capacità dei sistemi democratici di andare al di là del semplice piano procedurale: gli effetti prodotti negli Stati Uniti dalla concatenazione di crisi sanitaria, crisi economica e crisi sociale investono, infatti, in modo quasi paradigmatico quella che è considerata la più antica democrazia del mondo. Un caso, quello americano, forse da studiare e valutare bene per porre davanti ad ogni piano economico o strategia di crescita quella necessaria intelligenza politica delle cose che rende capaci non di subire la realtà ma di governarla.

 

Riccardo Saccenti
Comitato Scientifico Argomenti2000