Enti ecclesiastici e lotta alla corruzione

Giovedì, 12 Luglio, 2018

Anche gli Enti appartenenti allo Stato della Città del Vaticano devono adeguarsi alle norme internazionali in materia di lotta alla corruzione e al terrorismo e adottare modelli organizzativi per la trasparenza.

Il tema della trasparenza e della corruzione riguardo tutto il mondo e investe in particolare tutte quelle istituzioni che per il loro fine istituzionale sono chiamate a gestire importanti e rilevanti patrimoni. Già la Convenzione dell’ OCSE e altri trattati internazionali richiamavano gli Stati ad interventi legislativi importanti per uniformare a livello planetario la lotta alla corruzione. La vulgata popolare voleva che la Santa Sede era da considerarsi la meno permeabile a tali spinte.

La proclamazione del nuovo Pontefice Francesco ha rappresentato la chiave di volta nel percorso di adeguamento della legislazione Vaticana alle Convenzioni in materia di prevenzione e contrasto alla criminalità economica, nonché di rafforzamento della cooperazione internazionale in materia di lotta al terrorismo e più in generale in ambito penale.

Nel corso del 2013, l’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano è stato interessato da una profonda modifica con riferimento alla legislazione di carattere penalistico.
Papa Francesco, nella Lettera Apostolica del 13 luglio 2013 in forma di “Motu Proprio”, con riferimento alla Giurisdizione degli organi giudiziari dello Stato della Città del Vaticano in ambito penale, non ha nascosto le menzionate preoccupazioni, affermando che: “Ai nostri tempi il bene comune è sempre più minacciato dalla criminalità transnazionale e organizzata, dall’uso improprio del mercato e dell’economia, nonché dal terrorismo”.

La riferita presa di coscienza si è posta a fondamento dell’adozione di tre testi normativi, tutti riferiti al settore della legislazione penale Vaticana. In particolare, sono state promulgate le Leggi n. VIII (“Norme complementari in materia penale”), n. IX (“Norme recanti modifiche al codice penale e al codice di procedura penale”) e n. X (“Norme generali in materia di sanzioni amministrative”), entrate in vigore dal 1° settembre 2013.

Tra gli argomenti oggetto delle riforme, particolare interesse ha suscitato l’introduzione, agli artt. 46 ss. della L. n. VIII, di una nuova disciplina della responsabilità amministrativa degli enti dipendente da reato, per molti aspetti analoga a quella di cui al D.lgs. 231/01, applicabile agli enti italiani.

In effetti, all’interno dello Stato una prima normativa che ha regolamentato la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche si fa comunemente risalire alla legge n. CLXVI del 24 aprile 2012, il cui articolo 24-bis aveva stabilito che, con esclusivo riferimento alla commissione del delitto di “riciclaggio”, l’ente di appartenenza dell’autore del reato, avrebbe anch’esso potuto rispondere in via amministativa del reato al ricorrere di determinati presupposti.

La nuova disciplina introdotta con la L. n. VII del 2013 si caratterizza, invece, per la generale previsione di una responsabilità amministrativa dell’ente derivante dalla commissione dei reati previsti dal Codice Penale Vaticano. Per meglio dire, astrattamente gli enti che hanno sede all’interno dello Stato della Città del Vaticano possono essere chiamati a rispondere in via amministrativa per la commissione di qualsiasi fatto costituente reato ai sensi della legislazione penale Vaticana.

Circa l’ambito applicativo della responsabilità, l’art. 46, comma 6 del testo citato, stabilisce che le disposizioni del presente titolo (Titolo X) non si applicano alle autorità pubbliche, senza ulteriormente argomentare in merito all’esatta perimetrazione degli enti soggetti alla normativa. In più, al comma successivo la normativa sancisce anche che nei casi in cui sussiste la giurisdizione dello Stato di Città del Vaticano per i reati commessi all’estero, le persone giuridiche, aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’estero.

In merito poi agli elementi costitutivi della fattispecie integrativa della responsabilità dell’ente, l’analisi testuale del testo di legge in oggetto evidenzia chiaramente una “quasi” pedissequa riproduzione del contenuto degli art. 5 e 6 del D.lgs. 231 del 2001.  Dunque, si tratta di una responsabilità dipendente dalla commissione di un reato, che sia stato compiuto nell’interesse o a vantaggio della società, da persone che all’interno della stessa rivestono funzioni cc. dd. “apicali” o funzioni per le quali siano soggetti alla direzione o vigilanza di un soggetto in posizione “apicale”. Al ricorrere dei menzionati requisiti la responsabilità dell’ente sussiste a meno che le persone autrici del reato non abbiano agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, oppure a meno che l’organo dirigente, nel solo caso di reato commesso da parte di un soggetto “apicale”, non abbia adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto modelli di organizzazione e gestione idonei alla prevenzione dei reati della specie di quello verificatosi.
In aggiunta all’adozione e attuazione di modelli, ai fini dell’esonero dalla responsabilità amministrativa l’art. 46, comma 3, richiede che l’ente provi congiuntamente che:
b) il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo;
c) le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b).
Il riferimento ad una “quasi” pedissequa riproduzione è d’obbligo, posto che gli artt. 46 e ss. L. VIII/2014, non disciplinano un’ipotesi esimente del tipo di quella disciplinata dall’art. 7 D.lgs. 231/2001. Dunque, nell’eventualità in cui il reato sia stato commesso da un soggetto subordinato alla direzione o vigilanza di un altro soggetto posto in posizione “apicale”, la normativa non sembra offrire all’ente la possibilità di esimersi da responsabilità.

Quanto alle sanzioni la normativa oggetto di approfondimento differisce da quella rispetto alla quale ha presto spunto. Infatti, l’art. 47, comma 1, rimette al giudice la determinazione della sanzione amministrativa[1] da irrogare all’ente in caso di accertamento di responsabilità amministrativa dipendente da reato. L’apparato sanzionatorio così delineato non va sottovalutato, in quanto un’eventuale condanna ai sensi dell’art. 46 della L. n. VIII del 2013, è senz’altro suscettibile di arrecare pregiudizio agli enti che operano all’interno dello Stato della Città del Vaticano.

Pertanto, nonostante la mancata previsione dell’esimente in caso di reato commesso da soggetti sottoposti, sarebbe buona prassi per le società alle quali tale normativa si riferisce quella di adottare modelli di organizzazione, gestione e controllo suscettibili di cristallizzare il canone di diligenza che l’ente intende adottare nel perseguimento dei propri scopi d’impresa.

A prescindere dal beneficio dell’esimente della responsabilità, l’adozione di un modello organizzativo si rende necessaria anche al fine di soddisfare esigenze di etica dell’impresa che indubbiamente producono benefici in favore dell’immagine della società, che finisce per acquisire maggiore credibilità nei confronti degli stakeholders, rafforzando il rapporto fiduciario con loro instaurato.

Il quadro normativa, in materia di corruzione, reati transnazionali e terrorismo ha visto come ulteriore rilevante processo di riforma, le norme sull’ antiriciclaggio, introdotta con la Legge XVIII del 2013 che rispondono agli standard internazionali in vigore per la lotta alla corruzione e al terrorismo internazionale.

Il quadro normativo sopra delineato, ci permette di sottolineare come la Santa Sede abbia intrapreso, già da alcuni anni una strada senza ritorno di trasparenza e rigore e che tale indirizzo di trasparenza, attraverso l’adozione del modello organizzativo, debba essere accolto non solo dagli enti della Città del Vaticano, ma anche dagli enti ecclesiali italiani.

Maggiore trasparenza, regole chiare e un sistema di controlli interni potranno certamente aiutare, così come auspicato da Papa Francesco è sradicare la corruzione che è una mala pianta che ha invaso la politica, la società, e che minaccia anche la Chiesa.




[1] Art. 47, comma 2: “Salva la possibilità di sanzioni ulteriori previste dalla legge, le sanzioni che il giudice può irrogare sono:

  1. la sanzione pecuniaria, consistente nel pagamento di una somma di denaro;
  2. l’interdizione definitiva o temporanea all’esercizio di un’attività;
  3. la sospensione, la revoca di autorizzazioni, licenze o concessioni, nonché il divieto di contrattare con le autorità pubbliche;
  4. la confisca.