Don Tonino Bello: profeta del Concilio

Giovedì, 19 Aprile, 2018

 Direttore, anzitutto, quale ritiene sia il significato della presenza, della visita di papa Francesco sulla tomba di don Tonino Bello nel Salento, esattamente a 25 anni dalla sua morte (20 aprile 1993)? Si tratta di un evento straordinario. Lo si può leggere come un gesto di grande valore simbolico?

Indubbiamente si tratta di un gesto di grande valore ma anche un riconoscimento esplicito all’azione pastorale di un uomo che ha speso la sua vita a favore degli ultimi.

A differenza di quanto accade con i regali che ci scambiamo tra di noi, quando Dio fa un dono non se ne dimentica più, ma continua a ravvivarlo e ad accrescerlo, fino a che si compia pienamente: «Io vigilo sulla mia parola per realizzarla» (Ger 1,13).

Ciò vale anche per il dono straordinario del Concilio Vaticano II che Dio ha fatto alla Chiesa e al mondo. In previsione di esso, il Signore ha suscitato anche una serie di «profeti del Concilio», prima per prepararlo e celebrarlo, e poi per tenerne viva la fiamma, fino a che il «dono» si realizzi pienamente.

Si direbbe che papa Francesco si sia proposto di rivalutare pienamente non solo il dono del Concilio, ma anche la missione dei «profeti del Concilio», riscattandoli dalle incomprensioni che essi hanno dovuto subire in vita, spesso anche da parte della Chiesa. Ha intrapreso perciò un vero e proprio pellegrinaggio per venerarli di persona, uno per uno: don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, don Tonino Bello, don Zeno Saltini, Chiara Lubich … Così facendo, papa Francesco non fa altro che interpretare il Concilio usando la medesima ermeneutica di Giovanni XXIII, di Paolo VI, di Giovanni Paolo I e dei «profeti del Concilio», compreso don Tonino Bello.

 

 Non a caso si avverte una sintonia di fondo nella linea pastorale di papa Francesco e di don Tonino, una linea che privilegia un’attenzione costante e convinta verso i poveri, gli ultimi, gli immigrati. Da dove viene o, se vuole, su che base poggia questa loro forte consonanza?

E’ davvero impressionante la consonanza tra lo stile «conciliare» con cui don Tonino ha fatto il vescovo e quello con cui Francesco oggi fa il papa. Entrambi hanno rinunciato, fin dall’inizio, a qualsiasi segno esterno del potere a essi conferito. Entrambi hanno riservato la maggiore attenzione della loro cura pastorale ai poveri, ai diseredati, a coloro che vengono considerati “lo scarto della società”. Del resto, che altro fu la «Chiesa del grembiule» di don Tonino, se non la «Chiesa ospedale da campo» di Francesco? L’uno a Sarajevo e l’altro a Lampedusa sono il simbolo di tutti i costruttori di giustizia e di pace, testimoni credibili contro la violenza, le disuguaglianze, le guerre, la corsa agli armamenti.

Questa sintonia di fondo raggiunge il suo vertice nel discorso di don Tonino sulla «convivialità delle differenze», complementare a quello di papa Francesco sulla «sinodalità». E’ una sintonia, la loro, che si radica visibilmente nella medesima interpretazione dell’evento conciliare: attraverso una ermeneutica non dottrinale e giuridica, ma sapienziale ed evangelica.

 

 Un altro punto d’incontro tra don Tonino e papa Francesco è la parresìa con cui tutti e due denunciano ritardi e resistenze da parte della stessa Chiesa nell’attuazione del Concilio. Alla luce di quanto abbiamo già detto, non sorprende questa identità di vedute. Ritengo che Lei condivida. Del resto, don Tonino parlava della necessità di una «Chiesa estroversa» e papa Bergoglio di una «Chiesa in uscita».

Consacrato vescovo nel 1982 e morto nel 1993, don Tonino esercitò il suo ministero episcopale durante gli anni ’80. Quel decennio fu per la Chiesa italiana un sofferto periodo di «normalizzazione». Dopo la stagione profetica di Paolo VI, in seguito all’elezione di Giovanni Paolo II, prese il sopravvento una diversa ermeneutica del Concilio: non più la «mediazione dialogante» e la «scelta religiosa» di Papa Montini, ma una «presenza» militante della Chiesa come «forza sociale», schierata a difesa dei «principi assoluti non negoziabili».

Ebbene, proprio negli anni ‘80, quando il Concilio fu tenuto praticamente in quarantena, don Tonino svolse la missione di tenerne viva la fiamma, trasmessa da Paolo VI e custodita gelosamente da papa Luciani, durante i 33 giorni del suo breve pontificato.

Certo, il vescovo di Molfetta non fu l’unico a esercitare questo compito provvidenziale. Come dimenticare – per esempio – che nel 1980 faceva il suo ingresso a Milano l’arcivescovo Carlo M. Martini?

In ogni caso, è ormai appurato che don Tonino, andando controcorrente, fu sempre fedele allo spirito e alla lettera del Concilio. «Signore – egli usava pregare – donaci la gioia di capire che tu non parli solo dai microfoni delle nostre chiese. Che nessuno può menar vanto di possederti. E che, se i semi del Verbo sono diffusi in tutte le aiuole, è anche vero che i tuoi gemiti si esprimono nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù e nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone  dei pagani e nella rettitudine degli atei».

In fedeltà al Concilio, egli si spese con tutte le forze e fino alla fine per una «Chiesa estroversa» e «risorta» (come amava definirla), chiamata cioè a uscire da se stessa e ad andare verso tutte le periferie, diremmo oggi con le parole di Francesco.  «Dobbiamo servire il mondo – insisteva don Tonino –, ma da risorti. Di servizio se ne compie, nella Chiesa, e tanto anche. A volte fino all’esaurimento. Ci schieriamo con i poveri, facciamo mille sacrifici, aiutiamo la gente…ma non con l’anima dei risorti, bensì con l’anima degli stipendiati. E non sempre col nostro servizio annunciamo Cristo speranza del mondo. Annunciamo più noi stessi e la nostra bravura, che lui! Appariamo non di rado un’organizzazione che incute rispetto, spesso anche paura, soggezione. Ma non siamo i viandanti entusiasti che insieme con gli altri dirigono i propri passi verso Cristo risorto».

 

D. Tonino è stato l’uomo della pace e della non violenza attiva.

La ricerca della pace e del dialogo sono state le costanti del suo impegno pastorale. Ha lasciato il segno la marcia dei 500 a Sarajevo sotto assedio durante la guerra dei Balcani (alla marcia ha partecipato, tra gli altri, anche Mons. Bettazzi, suo grande amico). È stata un simbolo di speranza per la popolazione martoriata che viveva nell’incubo della fame e della morte. Un’iniziativa audace (sono sue parole). “Siamo qui per proclamare il valore della non violenza e della pace tra le diverse etnie”.

Direttore, attualizzando il discorso, cosa direbbe oggi D. Tonino Bello per la tragedia della Siria, un inferno che dura da sette anni? 

Sono certo che sarebbe in totale sintonia con il linguaggio e i moniti di papa Francesco che non transige: “niente può giustificare l’uso di strumenti di sterminio contro persone inermi” mentre tutti devono scegliere “l’altra via, quella del negoziato”.

 

E veniamo un attimo al fenomeno dell’immigrazione.

Come voi pugliesi ricorderete D. Tonino ha difeso la causa dei primi immigrati dall’Albania (gli sbarchi a Brindisi e a Bari nel 1991). Li ha  accolti nel suo vescovado a Molfetta come papa Francesco, negli anni seguenti, ha aperto per loro i palazzi vaticani. Possiamo essere certi che sarebbe stato al loro fianco ancora oggi che il fenomeno si è fatto molto più complesso.

 

Direttore, in conclusione, qual è l’eredità spirituale di don Tonino? E cioè mantengono la loro attualità il pensiero e la testimonianza cristiana di quest’uomo provvisto di coraggio controcorrente?

I santi sono la risposta di Dio alle crisi della Chiesa e del mondo. Ognuno di loro reca un messaggio da parte di Dio. Perciò la loro eredità spirituale è sempre attuale. Anche quella del vescovo di Molfetta.

In particolare, la testimonianza di don Tonino, da un lato, conferma la straordinaria fecondità apostolica del Concilio; dall’altro, denuncia l’inconsistenza delle critiche contro papa Francesco, impegnato a rinnovare l’annunzio del Vangelo, come vuole il Concilio.