Convivenze non matrimoniali e unioni civili

Settembre 2015

Legiferare in tema di unioni civili dovrebbe costituire un corretto ed equilibrato punto d'incontro per riconoscere determinati diritti senza rischiare di mettere in difficoltà i diritti della famiglia come "società naturale" prevista e tutelata dalla nostra Costituzione, ponendo in tal modo, un problema politico e un delicato problema di coscienza.

La nota che segue, elaborata da un gruppo di lavoro diffuso di Argomenti 2000, propone alcune considerazioni sul tema, senza entrare  direttamente in un commento critico sul  testo della proposta di legge  attualmente in discussione nella seconda commissione al Senato.  Con il documento, da considerarsi in progress, si intende favorire la formazione di una opinione fondata in materia e arricchire la  riflessione di quanti, in Parlamento e nel Paese, si pongono domande - e cercano risposte – sul tema dei diritti in questa complessa materia.

 

Formuliamo pertanto le seguenti considerazioni:

  1. Una considerazione preliminare, da non dare per scontata, attiene a un duplice atteggiamento che si richiede circa il tema in esame.

Vogliamo anzitutto ribadire l’esigenza (rimarcata anche dall’autorevole magistero di Papa Francesco) del rispetto verso le varie forme di unione e di convivenza differenti da quella matrimoniale. Esse costituiscono un insieme di realtà diverse tra loro, che vanno dai legami di fatto tra un uomo e una donna – comprensivi anche di convivenze occasionali determinate da motivi di economia e di convenienza di vario tipo (coabitazione, ecc.) – alle coppie omosessuali. In particolare con riferimento a queste ultime, che nel passato anche recente sono state non di rado oggetto di aggressione, va detto chiaramente che ogni eventuale e legittimo dissenso nei confronti di una simile scelta di vita deve arrestarsi davanti alla dignità insuperabile delle persone che l’hanno operata. Non è insomma lecito trasformare la diversità di opinioni in arma di violenza. Anche perché il ricorso alla violenza nasconde solo povertà di idee.

Per questo stesso motivo, in secondo luogo, affermiamo con eguale decisione la contemporanea esigenza che venga garantita a ciascuno la libertà di esprimere le proprie convinzioni in materia, senza correre il rischio di vedere censurato, o peggio, ritenuto illegale quanto in modo civile si è valutato criticamente .

  1. Un punto delicato è costituito dal tipo di rilievo giuridico che debbano assumere le relazioni in argomento, anche con riferimento alla circostanza per cui le coppie (eterosessuali) di fatto, le quali scelgono di non accedere al rapporto matrimoniale che implica una serie di conseguenze legali, nella gran parte dei casi non desiderano una formalizzazione del legame, ma si limitano a richiedere determinati vantaggi (dall’inserimento in graduatoria per l’assegnazione di abitazioni, fino alla reversibilità dell’istituto pensionistico).

Ciò che caratterizza la condizione di tali coppie è il difficile equilibrio tra due istanze contraddittorie, quali sono la pretesa delle medesime di mantenere una condizione pre-giuridica, fattuale, che resiste all’integrazione entro schemi giuridici di diritti e doveri, e la richiesta di essere riconosciute come titolari di diritti. Ora è evidente che una siffatta richiesta viene a giustificarsi solamente entro quel medesimo schema giuridico in precedenza rifiutato. Se pertanto da un lato sarebbe difficilmente prospettabile che le coppie di fatto siano obbligate a dichiararsi o, in qualche modo, a “registrarsi”, resta tuttavia dall’altro lato che la legittima pretesa di diritti non può non supporre il riconoscimento pubblico di tali diritti, con la conseguente assunzione di precisi doveri. È da questo punto di vista  inevitabile, per esempio, che il diritto alla reversibilità dell’istituto pensionistico debba venire conciliato con altri eventuali diritti pregressi di altri soggetti (come il partner di un precedente rapporto riconosciuto). Il fatto è che ogni forma di regolamentazione normativa rispetto a un legame di fatto esistente, per quanto snella e debole, trasforma in qualche modo la coppia di fatto in coppia di diritto. Così ogni regolamentazione normativa, che sistematizzi quanto già stabilito da singole norme o quanto consolidatosi in sede giurisprudenziale non potrebbe, del resto, che configurarsi come un sistema comprensivo non soltanto di diritti, ma anche di doveri.

  1. Una condizione che presenta alcune differenze e maggiori problematicità è quella che riguarda le unioni omosessuali. Sebbene debba supporsi che per molte di esse valgano le stesse valutazioni che conducono coppie eterosessuali di fatto a non ritenere conveniente una formalizzazione giuridica del rapporto, proprio la mancanza attuale, per le coppie omosessuali, di una tale possibilità di formalizzazione ha fatto sì che sia venuta ad emergere una consistente richiesta di poterla ottenere: fino a prospettare che la medesima debba consistere nell’accesso al matrimonio (istanza, quest’ultima, in certa misura paradossale, rispetto alla “fuga dal matrimonio” oggi riscontrabile in ambito eterosessuale).

La motivazione, in tal senso, sembra essere legata maggiormente a una rivendicazione per così dire identitaria, finalizzata ad accreditare il legame omosessuale nella società, che non a specifici interessi: posto, del resto, che molti di tali interessi hanno già avuto considerazione, al pari di quelli concernenti le coppie di fatto, in singole norme o in pronunce giurisprudenziali.

L’aspetto problematico è costituito, quindi, non tanto dalla possibilità di estendere alle coppie omosessuali alcuni diritti a fronte di alcuni doveri, quanto dalla richiesta di accedere all’istituto matrimoniale o, in subordine, a un'altra forma di riconoscimento equivalente del rapporto che si dichiara di voler costituire, con la motivazione che qualsiasi relazione affettiva implicante una certa stabilità di convivenza, della quale la coppia interessata chieda un riconoscimento giuridico, costituirebbe un matrimonio, così da dover essere regolata secondo le norme concernenti tale istituto..

In realtà non vi sono motivi validi che possano giustificare l'equiparazione al matrimonio di qualsivoglia relazione affettiva. Da un punto di vista astrattamente giuridico (che tuttavia è quello rispetto al quale il legislatore è propriamente competente, non potendosi pensare ad interventi legislativi che intendano avere effetti nella sfera personale dell’affettività), il matrimonio è una forma di contratto che si caratterizza per la tipologia dei soggetti coinvolti e per il tipo di rapporto che descrive. Per quanto arido ciò possa apparire, l’istituto giuridico del matrimonio prescinde del tutto dalle dinamiche affettive che si instaurano fra tali soggetti e intende solamente fissare i diritti e i doveri degli stessi, anche in rapporto alla capacità della coppia matrimoniale di generare dei figli: vale a dire i diritti e i doveri dei soggetti che entrano a far parte della nuova realtà che il matrimonio genera, cioè la famiglia.

Non è infatti il valore soggettivo dell’affettività, peraltro difficilmente riconoscibile, a costituire il fondamento giuridico del matrimonio, ma solo la volontà dei contraenti, una donna e un uomo, di dar vita a un nuovo soggetto, la famiglia, che assicuri tutela ai suoi membri.

Il legislatore pertanto, nel porre mano alla materia delle unioni, non può prescindere  da quanto stabilito nella Costituzione, che definisce la famiglia come una “società naturale fondata sul matrimonio” . La tutela assicurata alla famiglia secondo la Costituzione repubblicana si fonda sul fatto che la famiglia, nella sua naturale composizione costituita da un uomo e una donna con l’eventuale presenza dei figli, ha un ruolo fondamentale nella tessitura della società e svolge un ruolo insostituibile, oggi ancora più evidente che in passato, nel sostegno dei soggetti deboli (i figli, gli anziani), bisognosi non solo di cura educativa o di tipo assistenziale, ma anche di natura economica verso figli ormai grandi che tuttavia trovano difficoltà ad entrare nel mondo del lavoro. È in questo campo che il legislatore deve coraggiosamente intervenire in favore delle famiglie numerose, ai sensi dell'art. 31 della Costituzione. e introdurre,  alla luce del contesto sociale mutato, quei provvedimenti di legge che siano in grado di sostenere, promuovere, assistere ed agevolare sul piano giuridico e sul piano economico (come si è fatto nella recente legge di stabilità) la famiglia così intesa.

  1. La specificità dell’istituto giuridico del matrimonio rispetto ad altre legittime forme di convivenza, anche di tipo omosessuale, non implica in ogni modo il disconoscimento, come già si osservava, del rilievo di tali relazioni per il diritto. Si tratta essenzialmente di valutare, specie con riguardo alla relazione omosessuale, se si tratti di precisare, sistematizzare e integrare i diritti e gli obblighi già identificati in sede legislativa e giurisprudenziale con riguardo alla esistenza di fatto di una tale relazione, oppure se sia davvero opportuno addivenire a forme di riconoscimento legislativo previo - attraverso istituti giuridici nuovi - dell'intento dichiarato da due persone di costituire una simile relazione: senza peraltro trascurare i rischi che quest'ultima soluzione può produrre, sia sul piano educativo (in termini di delegittimazione del significato del matrimonio e di incentivazione della logica del gender), sia con riguardo a una progressiva assimilazione di tali nuovi istituti giuridici al matrimonio.

Non sarebbe in  ogni caso accettabile che tali eventuali istituti prevedessero una regolamentazione del rapporto e dei connessi diritti tale da risultare sovrapponibile a quella prevista per il matrimonio e, dunque, per la famiglia. In tal caso, infatti, la loro distinzione dal matrimonio risulterebbe solo nominalistica.

Il confronto finora effettuato nei nostri gruppi ci porta a propendere per una forma di riconoscimento della coppia omosessuale, secondo una modalità che la differenzi dalla famiglia, dichiarata “società naturale”  e quindi in qualche misura espressione ottimale o almeno ordinaria della relazione affettiva e generativa, e la distingua anche dalla coppia eterosessuale. Come precisa il punto 5, la grande differenza tra la coppia omosessuale e la coppia eterosessuale comunque registrata sta nella condizione di generatività, che non può essere affidata alla tecnica (Qui si apre anche tutto il discorso sulla fecondazione artificiale, di tipo soprattutto eterologo e/o ottenuta mediante il ricorso di tecniche di utero in affitto; dove il problema si concentra nel presunto “diritto di essere genitore”, che pare giustificare il ricorso ad ogni metodo pur di ottenere soddisfazione, ma che trascura completamente il diritto del figlio ad essere tutelato nella sua salute psico-fisica.)

  1. Va in ogni caso escluso che il diritto dei soggetti forti delle convivenze possa rivelarsi prevalente nei confronti dei diritti dei soggetti deboli. Qui ovviamente i termini forte e debole non stanno ad indicare situazioni concrete nelle quali uno dei membri abbia un potere di fatto sugli altri, ma fanno riferimento alla capacità giuridica di autodeterminazione, che la legge non riconosce ai minorenni, i quali proprio per questo vengono affidati alla tutela di adulti. Questo principio della tutela implica che il diritto del tutelato venga a costituire il fulcro della relazione e non possa esser piegato alle esigenze dei tutelanti; i quali incontrano un limite invalicabile all’esercizio dei loro diritti proprio nella priorità riconosciuta al soggetto debole e pertanto da tutelare. Questo argomento è di fondamentale importanza allorché si affronti la questione relativa al diritto delle coppie omosessuali di adottare dei bambini. Ad ostacolare questa richiesta è infatti non una eventuale incapacità educativa della coppia, ma il diritto del bambino ad avere un contesto relazionale di crescita completo ed integrato, dove il contributo pluriforme e complementare delle differenti identità sessuali dei genitori/adottanti costituisce propriamente motivo di equilibrato ed armonico processo di conquista di sé da parte del minore. La sessualità maschile e femminile infatti non costituisce una sorta di veste esteriore da indossare a piacere, ma indica un modo complessivo di relazione alla vita e di comprensione di sé. E solo il contributo di sessualità differenti può arricchire la personalità in formazione del bambino (la situazione eccezionale di famiglie monoparentali non potendo evidentemente costituire la regola di riferimento)
     
  2. Ora, il fatto che la dimensione globale della sessualità ricomprenda e unifichi la totalità dei modi di essere della persona umana mostra quanto ideologicamente orientata sia la già richiamata teoria del gender, che ispira numerose posizioni in materia di unioni civili. Pur avendo l’apparenza di modernità, essendo l’ultimo grido in materia di sessualità, essa ripropone in maniera inconsapevole il tradizionale, platonico, dualismo tra materia e forma, tra una realtà corporea volgare e puro luogo di materialità irrazionale e l’elevato e superiore controllo razionale di una psiche, ormai ridotta a pura emozione. Priva di un qualsivoglia supporto scientifico, che possa giustificare la dissociazione tra la determinatezza biologica e l’elezione del comportamento sessuale, la teoria del gender rivela l’illimitata volontà di potenza che l’individuo, chiuso nel suo bozzolo dorato, afferma di poter esercitare su tutto e su tutti. Con buona pace dei legami sociali e del senso di responsabilità verso gli altri.
     
  3. La problematicità di questa nuova concezione, il fatto che essa sia lungi dal costituire un orizzonte condiviso dalla maggioranza della popolazione italiana rende necessario chiedere alla società e alla scuola in particolare, di non farsi portavoce di precise opzioni culturali tutt’altro che assodate e condivise. Il rischio, oggi sempre più evidente, è che per questa via si alimentino forme ideologiche contrapposte, capaci di far sorgere un conflitto aspro e divisivo, di cui non si sente davvero il bisogno. Occorre invece alzare il tono del confronto con un approccio qualificato sul piano delle conoscenze scientifiche e della riflessione antropologica e morale più che della propaganda, coltivando allo stesso tempo l’elemento fondamentale in ogni ordinamento giuridico, ovvero il diritto del più debole.

 

Nota sul progetto di legge Cirinnà

L’accelerazione nella discussione parlamentare del progetto di legge Cirinnà e la richiesta da parte del Segretario del Pd di limitarsi ad emendare la proposta in Senato, anche attraverso un lavoro congiunto dei gruppi parlamentari delle due Camere, in modo che il passaggio alla Camera non comporti un ritorno al Senato pone l’esigenza  di focalizzare la riflessione su alcuni elementi di fondo a partire anche dalla sintesi finora raggiunta dai senatori attraverso l’attività emendativa in Commissione giustizia.

Una riflessione di fondo riguarda non tanto la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, cui la stampa ha dato grande risalto ma che, come è noto, allo stato attuale,  ha effetti relativi, sull'attività legislativa, quanto la sentenza della Corte costituzionale.

 

La Corte costituzionale ha affermato che “l'unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso” integra una formazione sociale, consistente in “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire  e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico” (sentenza n. 138 del 2010). In questo quadro, le stabili convivenze omosessuali rientrano nell'ampia categoria delle formazioni sociali, nelle quali sono garantiti i diritti inviolabili (art. 2 della Costituzione). 

La stessa sentenza, nell'affermare “il diritto fondamentale delle persone dello stesso sesso di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”, esclude con molta chiarezza la assimilazione al matrimonio e la possibilità di invocare, per le unioni omosessuali gli art. 3 (principio di uguaglianza) e 29 della Costituzione. 

Difatti, nel riconoscere “i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio” (art. 29), la Costituzione, sottolineando che la “famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere”, fa riferimento  esclusivamente al matrimonio tra uomo e donna. Questo precetto costituzionale, ancora secondo la Corte, non può essere superato: pur tenendo conto “della duttilità propria dei princìpi costituzionali”, ed ammettendo che “vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi”, nota come la “interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata”. 

Ancora secondo la stessa sentenza, il significato del precetto costituzionale, per il quale il matrimonio è tra persone di sesso diverso,  “non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un’interpretazione creativa”. Dunque “le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio” e non è, quindi, ammissibile una equiparazione delle due discipline.

Nel dettare una regolamentazione generale per le unioni omosesssuali, il Parlamento non  può non tener conto dei  principi enunciati dalla Corte costituzionale. 

Il percorso legittimo non è la omologazione alla disciplina del matrimonio, attuata attraverso il rinvio e la ricezione della disciplina dettata dal codice civile per il matrimonio ed i  rapporti tra coniugi, e neppure attraverso la ripetizione di formule normative di  identico tenore letterale della disciplina matrimoniale.

Il Parlamento deve, piuttosto, individuare quando ricorra una “condizione di  coppia” connotata da una stabile convivenza, e determinare quindi i “connessi diritti e doveri”, che muovono essenzialmente sul piano dei rapporti personali e patrimoniali. 

Ben diversa, infine, la disciplina dei rapporti con altri soggetti, in particolare con minori, per i quali ogni valutazione, sempre orientata all'esclusivo interesse del minore, va appropriatamente rimessa alla disciplina organica degli appositi istituti dell'adozione e dell'affidamento o, altrimenti rinviata ad un successivo intervento legislativo che prenda in considerazione complessivamente la materia.   Relativamente all'affidamento,  non pochi colleghi restano contrari, vedendovi un riconoscimento surrettizio di una possibile maternità/paternità all'interno di una coppia potenzialmente impossibilitata alla generatività naturale.  Potrebbero accettare, in un quadro di mediazione complessiva, solo che il tribunale dei minori valuti, caso per caso, la possibilità dell'affido del figlio di un partner all'altro partner, nell'interesse esclusivo della crescita armonica del bambino.

Un risultato si è ottenuto nella Commissione Giustizia del Senato con una modifica al testo base, recependo la definizione di “specifica formazione sociale”.

Ulteriori interventi emendativi sono necessari per chiarificare il testo (forse meglio sarebbe stato riscriverlo). 

Rimane tra l’altro l’obiezione di fondo, cioè se non sarebbe stato preferibile puntare su un istituto che ponesse in essere diritti e doveri riferiti non tanto e non solo a unioni omosessuali, quanto, più in generale ad unioni stabili.

La necessità di ulteriori interventi riguarda in particolare due criticità: il tema delle adozioni e quello della reversibilità. Mentre il tema della reversibilità presenta profili prevalentemente economici, il tema dell’adozione si impone per la sua evidenza etica. Si potrebbe in proposito considerare l'opportunità di stralciare dal testo di legge quanto riferito alla adozione, prevedendo invece la possibilità dell’affidamento. Al Senato si è così avanzata una seconda proposta: il partner non genitore sia nominato affidatario del minore, con la previsione di un rinnovo automatico dopo due anni, salvo giustificati motivi contrari. Al compimento della maggiore età, il già minore potrebbe accettare l’istanza di adozione. In caso di morte del genitore, il partner affidatario non verrebbe meno al suo ruolo e anzi potrebbe avanzare richiesta di adozione, in forza della continuità degli affetti. L’affido permetterebbe quindi di svolgere pienamente le responsabilità genitoriali ma, al contempo, escluderebbe l’attribuzione nello stato civile del minore di una doppia paternità o maternità.

Dibattito sulle unioni civili 2016

 

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