Cisl, 70 anni di risorgimento sindacale

Giovedì, 30 Aprile, 2020

La vitalità delle organizzazioni sociali si rafforza se può contare su solidi marcatori originari che le identificano, rafforzano la te­nuta associativa e danno senso e mi­sura alle azioni quotidiane. Lo slancio innovativo dei fondatori costituisce un patrimonio che a ogni ricorrenza me­rita di essere verificato da una solida riflessione su di sé. Così è per la Cisl a settant’anni da quel 30 aprile 1950 in cui i rappresentanti delle forze sin­dacali democratiche hanno procla­mato i medesimi ideali di libertà, di

solidarietà e di giustizia sociale affer­mati dai padri della Repubblica. Di differente estrazione politica, pur nel­la scelta aconfessionale, si sono rico­nosciuti nella «decisa volontà di tute­lare la dignità ed il rispetto della per­sona umana», esplicita evocazione della Dottrina sociale.

Questa presa in carico integrale della persona lavoratore si poneva in alter­nativa alla prevalente vocazione ideo­logica del sindacato italiano alla con­flittualità sociale. L’affermata centra­lità della persona definiva come oriz­zonte il pieno riconoscimento della cittadinanza e dell’emancipazione dei lavoratori e delle loro famiglie in una società libera, aperta, dinamica. Piena democrazia, dunque, ma anche ac­cettazione delle regole di un’economia di mercato che, per quanto iniqua, po­teva essere indirizzata allo sviluppo per opera di un assetto economico (l’“economia mista") che si reggeva sulla condivisione di responsabilità tra le imprese private, le forze sociali e un attore pubblico consapevole che la buona politica orienta gli interessi fra­zionali, senza invadenze, verso obiet­tivi generali e il bene comune.

La potenza del disegno originario era la premessa indispensabile ma non e­sauriva la marcatura identitaria della Cisl delle origini così come è giunta si­no a noi. Un segno riconoscibile era l’innovativa proposta di articolare la contrattazione sino a livello d’impre­sa per porre in relazione gli incrementi salariali all’andamento della produttività aziendale. Nei territori e in sede centrale si contava sulle potenzialità multiformi della regolazione sociale. Diversi livelli d’azione per costruire spazi di partecipazione e portare così la sfida nel cuore dei rapporti costitu­tivi del capitalismo industriale, tra ca­pitale e lavoro.

Un progetto non anacronistico perché si fondava sulla consapevolezza che, nel nostro paese, l’incompiuta mo­dernizzazione dei rapporti di lavoro doveva confrontarsi con il rapido a­vanzare dell’innovazione tecnologica e della riorganizzazione dei sistemi produttivi e delle imprese. Questa era la sfida. Ricusata la via semplicistica della contrapposizione ideologica tra capitale e lavoro, non restava che po­sizionarsi sul terreno dell’economia di mercato avvalendosi degli ambiti di autonomia delle democrazie occiden­tali senza trascurare la prospettiva del­l’unificazione europea.

Questa impostazione si fondava su un atteggiamento di responsabilità nei confronti dell’intera comunità nazio­nale e internazionale. Non dunque u­na mera rivendicazione di diritti o u­na restaurazione di logiche assistenzialistiche, ma la sollecitazione ad af­frontare le emergenze del Paese: la qualificazione del mercato del lavoro a partire dalla preparazione scolastica; una mobilitazione dal basso delle so­cietà locali per non affidare il Mezzo­giorno al solo trasferimento di risorse pubbliche; la modernizzazione della pubblica amministrazione; un welfare della persona in grado di segnare la traccia dello Stato sociale. Orienta­menti credibili se, in prima istanza, le stesse organizzazioni sindacali dimo­stravano di essere in grado, tramite po­litiche formative innovative e con l’aiu­to del mondo degli studi e della ricer­ca, di promuovere tempestivamente la maturazione politica, sociale e tec­nica della propria classe dirigente e degli operatori di prima linea. Così da rompere la frontiera su cui erano ag­gressivamente attestati, anche nel mondo del lavoro, la diseducazione democratica e sociale e il sistema di

privilegi su cui aveva fatto aggio il re­gime fascista.

Si prospettavano, consapevolmente e senza timore, anni difficili, di isola­mento, di faticose conquiste nel bre­ve periodo per affermare quel “risor­gimento sindacale" che, secondo Ma­rio Romani (il professore della Catto­lica che collaborava con Giulio Pasto­re), sfidava il sindacato ad affermare la centralità della persona del lavora­tore. Chi ancor oggi dissentirebbe da tale affermazione? Ma sotto le percos­se che Coviti-19 sta infliggendo alle persone, nel dolore dei lutti e nella di­spersione del lavoro, i proclami e le formule retoriche non reggono. Nel 1950 l’elemento ordinatore della con­vivenza era il mercato. Col tempo l’or­dine economico liberale ha assunto la sostanza di un’egemonia neoliberista segnata in una lunga stagione avversa alle rappresentanze del lavoro. Nella società globale il mercato ha ceduto terreno alla speculazione.

Oggi, l’indiscutibile emergenza che spinge ad affidarsi totalmente all’a­zione pubblica - non per riconosciu­ta autorevolezza ma in quanto erogatrice di denaro facile - profila un nuo­vo rito sacrificale della libertà associativa e del ruolo dei soggetti inter­medi. Altra era l’istanza affermata nel 1950: non il mercato ma il lavoro de­gno e la socialità possono animare l’or­dine umano delle nostre polis e dello stesso mercato. Per non ridursi a me­ra rivendicazione, il “nuovo risorgi­mento" può contare sulla coscienza interiore del sindacalismo democrati­co testimone, per esperienza diretta, della possibile stretta coerenza tra affermazioni di valore e vita organiz­zativa, tra contrattazione e parteci­pazione sperimentando nuove for­me e nuovi spazi di rappresentanza. Si tratta “solo” di operare da sinda­cato, più che in passato, ovunque le tutele sociali possano andare a sol­lievo di chi del lavoro, o dell’impe­gno sociale, ha necessità per bisogno materiale e di senso. Risorgere è ri­generare inclusive comunità inter­generazionali del lavoro.