Brexit non ignorare la realtà

Mercoledì, 18 Dicembre, 2019

Il dado è tratto, da febbraio riprenderanno con più decisione i negoziati per ridefinire i rapporti tra Unione Europea e Gran Bretagna, entrando nel concreto e nei dettagli oltre gli accordi di massima negoziati dalla May e mai approvati dal Parlamento britannico. Come sarà questo accordo: se hard, cioè un semplice accordo di libero scambio o un più articolato sistema di accordi per minimizzare le ricadute economiche è difficile dirlo ora. Boris Johnson è un personaggio imprevedibile, ma anche pragmatico e certamente con il risultato ottenuto non è bisognoso di mediazioni con alleati di governo o con la componente del suo partito più favorevole ad una hard brexit. Ma al di là di quale sarà la strada che i britannici vorranno intraprendere può essere interessante soffermarsi su alcuni aspetti più di scenario decisamente significativi che emergono da queste elezioni.

Il contesto

Molte volte le forze profonde della storia si condensano in eventi che le sintetizzano. Le elezioni del 12 dicembre sono uno di questi eventi, che come dire traggono le conclusioni di fatti concatenatisi nel tempo anno dopo anno. I Tories dal punto di vista territoriale sono di fatto un partito regionale arroccato nell’Inghilterra e nel Galles un tempo referenti del capitalismo inglese oggi ne sono di fatto disconnessi. Il capitalismo inglese imperiale e nazionale è un ricordo, attualmente è marginale e il capitalismo finanziario che fa affari a Londra è mondiale, le imprese da quella automobilistica a quella aerospaziale hanno riferimenti proprietari esteri. Non a caso tutto questo mondo era contrario alla brexit. La ragione per cui i Tories hanno sostenuto l’uscita è da ricercare fondamentalmente nel fatto che i britannici, ma soprattutto gli inglesi non si sono mai sentiti parte integrante dell’Unione Europea. L’adesione è avvenuta nel tentativo di contrastare la crisi economica degli anni 70 e il rapporto è sempre stato di ridurre al minimo i costi facendo sì che il rapporto economico dare/avere fosse al peggio in pareggio. La stessa Margaret Thatcher rispetto ad una ipotesi di unione politica prospettata da Delors disse: «Qualche giorno fa il presidente della Commissione, Delors, ha detto a una conferenza stampa che voleva che il Parlamento europeo fosse il corpo democratico della comunità, che la Commissione fosse l’esecutivo e che il Consiglio dei ministri fosse il Senato. No. No. No.» (dibattito alla Camera dei deputati, 30 ottobre 1990)
L’apertura verso l’esterno ha portato nuova immigrazione percepita come un a minaccia soprattutto dagli strati più indigenti. Già negli anni 70 sempre la Thatcher in un programma televisivo World in Action il 27 gennaio 1978 ricordava: «Le persone hanno davvero paura che questo paese possa essere invaso da altre persone di una cultura differente. E noi non facciamo politica per ignorare le preoccupazioni delle persone: facciamo politica per occuparcene».
Sul versante opposto, rispetto al tema della brexit, il partito Laburista è stato ondeggiante addirittura prospettando l’ipotesi di un nuovo referendum. Il risultato è stato catastrofico.
Ora di fronte a questi cambiamenti e a queste difficoltà il risultato elettorale rappresenta un punto di svolta rispetto al quale, il 29 ottobre 2019 David Edgerton, professore di storia della scienza e della tecnologia, e di storia britannica moderna, al King’s College di Londra ha commentato: “La Brexit è una crisi necessaria, che ci permette di verificare, come si aspettava da molto tempo, lo stato delle cose nel Regno Unito. Espone la natura profonda dell’economia, i nuovi rapporti del capitalismo con la politica e la debolezza dello Stato.”
Tuttavia come verrà negoziata questa uscita non è indifferente anche rispetto ai destini del Regno Unito. Infatti data la diversa considerazione verso l’UE della Scozia, la prospettiva di una disintegrazione del Regno non è un’ipotesi lontana. Il risultato quindi di queste elezioni sono sostanzialmente la vittoria di un nazionalismo che pensa di creare benessere e prosperità per il proprio popolo sottraendosi al legame con altri stati quali quelli dell’Unione Europea. Questo nazionalismo come tutti i nazionalismi europei dovrà fare i conti con la sua intrinseca debolezza perché è debole la sua base economica. Rispetto a questo evento l’urgenza di un cambio di passo dell’Europa non è più rimandabile, ammesso che si sia ancora in tempo per prendere provvedimenti in grado di incidere sulle condizioni dei cittadini europei.
Il cambio di passo vuol dire: proporre agli stati aderenti all’area euro il passaggio ad una adesione volontaria ad un livello più alto di unione, ad una unione politica dando a questa unione più risorse economiche. Un’unione in grado di svolgere politica estera, politica degli investimenti in ricerca comune, omogeneizzazione fiscale, esercito europeo, elezione diretta del capo della commissione. Riorganizzazione delle strutture europee in una logica di maggior efficienza. È una soluzione che prevede una adesione progressiva degli stati che al momento dell’avvio non si sentono pronti a questa cessione di sovranità. L’attuale Europa quel che poteva dare l’ha dato.  O è in grado di trovare con fantasia soluzioni che prospettino un futuro in cui i residuali nazionalismi vengano diluiti, e la soluzione “carolingia” cioè franco tedesca prospettata da Macron non può essere una risposta in questa direzione, oppure prepariamoci a tempi avvelenati.